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La Parola, il Dialogo e la forza narratrice dell’Essere. Testo di Giusy Cavalieri

 

Nell’ambito della mia esperienza di Consulenza Filosofica mi sono spesso confrontata con una casistica individuale dove il ruolo del consulente non poteva essere visto esclusivamente come maieutica del gesto socratico, tanto acclamato e ripetuto. Veniva invece richiesto un ruolo diverso, di esperto dell’animo umano e di quei problemi di senso che, da troppo tempo, travagliano la nostra società.

Se è vero che Heidegger individua l’uomo come l’Essere-per-la-morte, è altrettanto vero che queste problematiche di senso, che l’uomo trova nella società in cui vive, sono dovute ad una “errata” concezione del mondo cui egli stesso inerisce, poiché dimentico di quella singolarità della pluralità che il mondo greco ha introdotto nella cultura europea(1).

Nel mio filosofare con gli ospiti, mi sono accorta di questa necessità di attestare la propria humanitas ed il proprio ruolo all’interno del sistema sociale, all’interno della famiglia e anche del posto di lavoro: non solo essere uomini per convinzione, ma sentirsi davvero tali. In questo desiderio di attestazione del proprio Sé, dar spazio alla parola ed al dialogo significa necessariamente implicare l’Essere in ogni sua caratteristica imprescindibile. Lo spazio umano che ne deriva è il racconto del proprio disagio che acquista forza e valore dalla parola e dall’approccio con il dialogo filosofico: la ricerca attraverso la parola. Milan Kundera sostiene che “Attraverso l’azione l’uomo esce dall’universo ripetitivo del quotidiano dove tutti assomigliano a tutti e diventa individuo”(2). E' chiaro che la narrazione stessa, il testo scritto, che è fatto di parole, può offrire al lettore gli strumenti per volgersi verso quell’analisi del mondo interiore, distogliendo lo sguardo dal mondo intorno, per osservare la propria visione del mondo, il proprio Esser-Ci, utilizzando i concetti di epochè e di aisthesis che sono i soli capaci di cogliere la frattura che alimenta l’uomo del ventesimo secolo. Nell'iniziare il dialogo con l'ospite è importante aver chiaro che si parte da una concezione di filosofare assolutamente critico, da un momento dialettico che proprio dal dialogo trae il suo movimento verso una sintesi del concetto- problema che ci viene presentato. Ponendo questa concezione è chiaro che venga meno il presupposto che non debbano esistere “precomprensioni”e“pregiudizi” perché per fare filosofia è necessario avere un inizio. La forza della parola, della ricerca del suo significato e del conseguente movimento dialettico che, intorno ad essa, si sviluppa inevitabilmente, sono determinanti nella genesi del dialogo filosofico.

E' possibile trovare il senso attraverso le parole che compongono un dialogo?

Io credo che sia proprio questa la forza della Pratica Filosofica rispetto alle pratiche psichiche: la psicoanalisi, infatti, conosce il non-senso di una vita tormentata dalla sofferenza, ma non la sofferenza determinata dall'irreperibilità di un senso che, invece, l'indagine filosofica si propone di trovare servendosi proprio di quel gesto socratico che fa del dialogo la sua “medicina” migliore. Parlare e dialogare con gente, che ricerca un senso nel suo dramma esistenziale, non deve essere visto come una cura, né il Consulente è un medico che diagnostica una psicopatia; l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire un senso”(3).

Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione; se il problema è di comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo il cui senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e oscuro. Nel momento in cui ci si trova davanti ad un problema che sembra sconvolgere il nostro equilibrio precario e questa verità emerge inesorabilmente, non è sempre facile chiamare le cose con il loro nome e comprenderne il senso quando di esso non ne conosciamo il concetto, la definizione. Ma è oltremodo evidente che, come avviene nel Mito della Caverna, solo pochi sono in grado di accettarne il “responso”.

La parola e il dialogo filosofico sono portatori di una verità che non è da intendersi in senso assoluto; sappiamo bene che una verità assoluta non esiste, né lo scopo filosofico della consulenza è la ricerca di una verità oggettiva, valida in senso assoluto. La parola e il dialogo filosofico sono portatori di una verità che nasce maieuticamente dal nostro ospite e che serve ad ampliare la sua visione del mondo rispetto al problema di senso che generava in lui impasse e malessere. Probabilmente far emergere la verità potrebbe sembrare scomodo e forse un'appropriazione indebita di pratiche psicologiche che potrebbero non competere al Consulente. Io credo che sia necessario scorporare dalla Pratica Filosofica il timore di portare al suo interno concetti e pratiche sostanzialmente psichiche. Una parola ne richiama necessariamente una seconda, poi una terza e così via fino a definire l'insieme delle parole del dialogo. Nel dialogo filosofico non si deve convincere l'ospite dell'esistenza di un senso. Si deve invece riuscire, seguendo il discorso e la trama del suo racconto, ad individuare il nodo concettuale che determina in lui il problema di senso ed insieme a lui spostare l'attenzione su un altro punto di vista, sviscerando il problema non come singola componente di fatti, ma come singolo concetto.

La parola e il dialogo possono essere inseriti anche nella pratica letteraria; qui la Pratica Filosofica si inserisce come momento di riflessione dinamico che sposta, come detto in precedenza, l'attenzione sul problema da un ulteriore punto di vista, che chiameremo esterno, da cui osservare e analizzare il problema di senso.

Qual'è la forza della parola scritta, che sembra muta e di fatto riesce ad essere ugualmente dirompente?

Quando introduco la pratica letteraria con i miei ospiti mi piace sempre fare un preambolo con una metafora che chiamo metafora della porta. Mi trovo davanti ad una porta, sono in una stanza al buio, non so dove andare e non ho luci che mi permettano di vedere chiaramente i contorni della stanza, tranne questa porta. Mi avvicino, ma sono tentennante se aprirla, come aprirla, se bussare timidamente, se aprirla poco, se spalancarla direttamente. Successivamente, osservando con calma, vicino alla porta noto un libro e istintivamente comincio a sfogliare. Dalla lettura un po' sommaria, comincio a capire come poter aprire la porta senza avere brutte o spiacevoli sorprese. E' chiaro che la porta rapprensenti il problema dell'ospite ed il come aprirla è la rappresentazione della soluzione che, come spesso accade, è a portata di mano: il libro, infatti, si trova vicino la porta, ma viene notato successivamente. Il libro, la parola scritta, ha il compito di facilitare l'interrogazione filosofica che seguirà la lettura di un brano, di un intero testo o di uno stralcio. L'elemento esterno serve, a mio parere, per non focalizzare troppo l'attenzione, da parte dell'ospite, verso il suo consulente, rischiando di investirlo di un'autorità che non è sua e che di fatto non gli compete. Ritrovare in un elemento esterno pezzi che possano essere simili alle problematiche dell'ospite sicuramente determinano non solo un sollievo alla sua sofferenza, ma anche uno sprone alla ricerca di quella verità che si trova proprio dietro la porta. Sollievo perché l'ospite può comprendere di non esser solo, e di non esser il solo ad avere quel problema, e attraverso la condivisione si arriva anche alla esternazione; sprone alla ricerca perché contribuisce alla scoperta come thaumazein di un qualcosa di condiviso che può accomunarlo a tanti altri rendendolo singolo nel suo problema di senso che, abbastanza spesso è plurale e questo ripropone anche il concetto di condivisione e comunione tra Consulente e ospite.

In un dialogo è importante rendere attivo il nostro ospite; la ricerca filosofica, differentemente da molte pratiche psicoterapiche, prevede una attività propositiva dell'ospite che non si compone di ascoltare il filosofo senza essere parte del suo domandare. E' qui che si inserisce l'attività dialogica che serve a promuovere una ricerca comunitaria (ospite-consulente) del significato del concetto, arrivando insieme a darne una definizione o ri-definizione per non pensarlo più come problematico.

Possiamo pensare l'attività dialogica come proposizione provocatoria di interrogativi?

Io credo che questa sia un'ottima base di partenza per l'indagine filosofica. La provocazione da sempre innesca risposte e reazioni da parte di chi la riceve. Per questo motivo, all'interno di un contesto di Pratica Filosofica, può essere uno strumento utile al Consulente per dare l'inizio al dialogo, senza necessariamente dover partire da un'idea preconcetta come può accadere nelle psicoterapie. Nella ricerca filosofica non si indaga il quis, bensì il quid che, spesso, rimane impigliato nelle reti del senso che compogono il nostro Essere, nella sua totalità e complessità. Ricercare il senso, nella fitta trama delle relazioni che ogni persona intesse nel suo quotidiano, può darci l'idea di quanto ampia possa essere l'argomentazione su cui filosofare. Qui non bisogna intendere una interrogazione sistematica sui “massimi sistemi” , ma una semplice domanda che abbracci la nostra vita, in quel momento particolare. Che cos'è? o perché? non devono prescindere dal mio ragionamento quotidiano e forse, proprio per questo, è necessario ampliare l'orizzonte di fare filosofia. Il dialogo filosofico deve prendere le mosse dalla ricerca del quid, lasciando la possibilità all'ospite di esprimersi, di raccontarsi e raccontare la sua problematica di “acquisizione” concettuale rispetto alla sua visione del problema. Scomponendo e analizzando, senza mai interferire, piuttosto un “camminare insieme” esperendo e analizzando la questione. Per fare questo è imprescindibile l'accoglienza della parola dell'altro, il suo vissuto, il suo Esser-ci.

Nell'approccio empatico che necessariamente si sviluppa in un dialogo con l'ospite, si evidenzia, in tutta la sua forza, l'Essere della persona che abbiamo difronte. Empatia, secondo la definizione iniziale di Edith Stein, designa "una genere di atti, nei quali si coglie l'esperienza vissuta altrui" ed usa questo concetto in relazione ad atti percettivi in relazione con le persone. A differenza del giudizio, che è rivolto ad afferrare e comprendere argomenti, idee e concetti mentali di un altro (o le conseguenze causali di un fatto nella natura e nella storia), l'empatia indica un atto conoscitivo (oppure la somma di atti percettivi), che è rivolto alla percezione soggettiva dell'altro, alla sua "esperienza" interiore e perciò anche alla sua stessa personalità."Sentire, e in particolare empatizzare, è un altro particolare per entrare nel mondo che la persona si rappresenta come tale(4)".

Troppe volte l'approccio empatico viene scambiato come necessità ad andare d'accordo con la visione del mondo dell'altro; in Consulenza io credo sia necessario ridefinire cosa sia l'approccio empatico, scorporandolo da tutta una serie di definizioni di psicologia e di counceling che ne “deturpano” il concetto originario. Il termine empatia deriva dal greco (emphateia) con i significati di “nell’affetto e nel pathos”. Empatia significa letteralmente partecipare alle emozioni degli altri, capendone i sentimenti In un approccio dialogico, come quello descritto in precedenza, non solo il rapporto empatico diventa parte dell'Essere, ma anche della sua narrazione. Nel momento in cui si accoglie l'ospite, necessariamente, la sua storia, il suo vissuto, la sua esperienza e non per ultimo il suo dolore diventano parte empatica del mio rapporto di “sentire le sue emozioni”. Per quanto possa essere coscienza esterna, com-patisco con lui il suo dramma, il suo problema, la sua ricerca. Nell'approccio empatico non si deve scambiare o forzare la visione del mondo con quella dell'ospite, ma si deve accogliere quella dell'altro servendosi proprio sia di una forza empatica che il dialogo filosofico favorisce, sia di quella particolare capacità del filosofo di cogliere l'Essere nel suo concetto problematico. Come posso cogliere questo Essere nell'ospite che ho davanti? Non si tratta, indubbiamente, solo di una condizione di “accoglienza” della persona e del suo problema, ma anche un' accogliere la visione del mondo dell'ospite e lasciare che questa emerga, raccontandosi. Mi sono accorta che questa dimensione dell'accettare la visione del mondo dell'ospite è predominante negli incontri tra Consulenti, ma tra teoresis e praxis esiste un abisso che è sempre difficile da colmare e per questo, ho cominciato a chiedermi cosa fosse.

Non sempre l'ospite lascia emergere la sua concezione argomentativa, anche perché, soprattutto all'inizio degli incontri, c'è sempre quell'alone di credenza di sentirsi indagati e che il filosofo disponga dei mezzi per risolvere il problema. E' proprio la non-emersione che distanzia l'ospite e il consulente, ma anche la theoresis e la praxis di cui sopra. Come colmarlo? Ogni ospite è diverso, non esiste un metodo universalmente valido, ma ho notato che la “libera espressione dell'Essere” nelle sue forme è molto gradita. Ho sperimentato la lettura, l'ascolto, il disegno, il meta-racconto e soprattutto, in queste due ultime tecniche, ho potuto constatare la dimensione non solo dialogica dell'atto consulenziale, ma anche l'importanza che questa narrazione, diversa dal consueto, acquista nell'ospite un valore aggiunto, consentendo l'emersione dall'impasse del sentirsi legati ad un indagine medicalizzante. L'Essere diventa molteplice se entra in contatto con altro-da-se, infatti, ognuno di noi percepisce le cose in modo differente. E' errato credere che risolvere la problematica di un singolo possa servire come “metodo” per la problematica di un altro. Qui, differentemente da altre pratiche di aiuto, non si parla di singolo o di individuo, in consulenza si fa riferimento alla persona come esistente unico e originale, al suo problema come unico e originale, perchéé l'Essere è molteplice. Dalla mia esperienza emerge l'originalità di ogni racconto e la forza di questa narrazione acquista, sempre di più, un valore catartico nell'affrontare il problema da parte dell'ospite. Non si tratta di fornire uno stile comportamentale, il Consulente cammina insieme al suo ospite, insieme a lui scopre il sentiero da percorrere, interrogandosi su quale possa essere la scelta migliore, esaminando criticamente e lucidamente il problema, cercandone il senso.

Affrontando la pratica ho capito che l'irripetibilità del momento in cui l'ospite si accosta alla verità, che ha appena pronunciato da solo, scavando nei meandri del suo racconto, è la più bella espressione dell'Essere nella consulenza. Ogni persona ha fame di verità, ma spesso è difficile coglierla nel suo aspetto originario, senza esserne totalmente colpiti e travolti. L'errore sta di coglierne il significato, senza averne colto il senso e forse è proprio questo che incute ansia, dolore, frustrazione. Bisogna ricercare la verità richiamandola a noi con ogni mezzo con cui la si possa esperire, direttamente e indirettamente ed infine, guardarla con quel giusto distacco che l' epochè greca ci ha insegnato. María Zambrano invita il pensiero ad abbandonare qualsiasi sistema filosofico, quel «castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto(5)». Vita e pensiero, ci ricorda la nostra filosofa, non sono due mondi eterogenei o due totalità autosufficienti, ma una sola realtà, quella esistenziale, che è strutturata in un organismo che è l'uomo e pertanto il pensiero non può porsi come antagonista della vita, bensì come principio capace di renderne conto. Tuttavia il pensiero, come capacità logica, può ordinare e organizzare la vita solo se riesce a rispettare le esigenze pluralistiche vitali e a dar voce anche a tutti quegli aspetti oscuri dell'essere umano. Ciò significa che la speculazione filosofica deve essere tale da non trascurare e sentire come estraneo nessun elemento o aspetto umano, primo fra tutti quel «frammento di cosmo che è l'anima(6)».

1 Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 2005

2 Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988

3 Umberto Galimberti, Psiche e Tecne. L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, Milano, 2002

4 E .Stein, Il problema dell'empatia , Studium, Roma, 1998

5 María Zambrano, Filosofia e poesia, Edizioni Pendragon, Bologna 1998

6 María Zambrano, Verso un sapere dell'anima, ed. Cortina, Milano 1996


Giusy Cavalieri scrive sul suo blog: praticafilosofica.blogspot.com

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